Inaugura domani a Villa Croce a Genova la mostra dedicata a Tomas Rajlich

La forza dell’attrazione

Accompagna la rassegna il confronto con artisti quali Alviani, Bonalumi, Dadamaino, Manzoni e Fontana, fra gli altri

Dal 4 maggio, nelle sale del Museo d’Arte Contemporanea di Villa Croce a Genova trionfa “MAKE IT NEW!”, la grande retrospettiva sull’astrattismo a cura di Cesare Biasini Selvaggi e Flaminio Gualdoni. Grazie a una regia raffinata e consapevole, la mostra offre una riscoperta della lunga ricerca dell’artista ceco Tomas Rajlich, in un dialogo intenso e ricco di suggestioni con alcuni importanti maestri dell’arte concettuale del ‘900.

Tomas Rajlich nasce nel 1940 in Repubblica Ceca, studia scultura alla Scuola di Arti Decorative e poi all’Accademia di Belle Arti di Praga. Il suo esordio nel panorama artistico internazionale è rapido, limpido e inequivocabile: già membro sin dai primi anni ‘60 di aggregazioni culturali praghesi che tengono d'occhio gli influssi artistici europei, nel 1967 fonda il gruppo Klub Konkretistu che ha in sé molto delle neoavanguardie internazionali guidate da Azimut in Italia, ZERO in Germania e Nul-Groep in Olanda; di lì a poco, la mostra Sculpture Tchécoslovaque del 1968 al Museo Rodin di Parigi sancisce il debutto di Tomas Rajlich sulla scena artistica europea, inizialmente come scultore, sebbene la pittura diverrà il medium prevalente della sua intera produzione.

Fuggito nel 1969 per scampare all'occupazione sovietica della Cecoslovacchia, approda come rifugiato in Olanda, paese che si rivelerà un potente incubatore per la maturazione delle proprie idee, specialmente nei circoli di Amsterdam e L'Aia: grazie al contatto con artisti olandesi come Jan Schoonhoven inizia una nuova fase di intenso impegno artistico. Una volta ottenuta una cattedra alla Vrije Academie dell’Aia, nel 1974 prende parte a una serie di mostre decisive in gallerie europee che lo accoglieranno per molti anni: Art&Project ad Amsterdam, Yvon Lambert a Parigi e Françoise Lambert a Milano. Nel suo percorso espositivo resterà memorabile la mostra Fundamentele schilderkunst/Fundamental painting allo Stedelijk Museum di Amsterdam, tappa importante nell’affermazione internazionale della pittura analitica, così come le mostre successive “Elementaire Vormen” del 1975, “Fractures du Monochrome aujourd’hui en Europe” al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris e “Bilder ohne Bilder” al Rheinisches Landesmuseum di Bonn, entrambe del 1978.

L’aspetto senz’altro più affascinante della ricerca di Rajlich è il suo continuo evolversi pur mantenendo una coerenza pienamente logica espressa attraverso alcuni elementi che non saranno mai abbandonati. Nei primi anni, infatti, la produzione di Rajlich è guidata da un sempre maggiore interesse per la pittura fondamentale, anche grazie alle influenze artistiche con cui si confronta in territorio olandese, le quali gli daranno una connotazione fortemente geometrica e schematica, di matrice industriale, caratterizzata da griglie ed elementi modulari. Con il passare degli anni l’estetica rahlichiana si incupisce attraverso una degradazione cromatica che dal grigio chiaro esaspera verso il nero e confluisce, alla fine degli anni’70, nella serie definitiva dei Black Paintings (1976-1979).

Queste opere sono composte da quadrati neri dalla superficie liscia resa con smalti lucidi, dove la griglia è totalmente invisibile se non ai confini più estremi della tela. Successivamente, in anni più maturi si assiste a una netta inversione di marcia in cui le opere sono protagoniste di un sorprendente recupero del colore, e soprattutto di una riappropriazione della luce: Rajlich approda in una dimensione percettiva e simbolica completamente nuova, guidata dall’idea essenziale che la pittura è un’entità che riflette su se stessa. Dunque, a partire dagli anni ‘80 i monocromi si chiarificano, sublimano nello straripamento sulla tela di vernici pastello dal giallo al rosso, dal celeste al rosa e fino all’oro, senza però mai rinunciare al processo di rigorosa strutturazione elementare che sostiene l’anima del monocromo. Questa non è più una gabbia, ma più simile ad uno scheletro leggero e flessibile, una presenza silente e armoniosamente necessaria. Oltre al colore, la luce è l'altra maestosa entità che pervade questa serie di monocromi e porta l'artista a riflettere sulle variazioni di intensità e luminosità, sull'essenzialità e sulla matericità della pittura, pur restando essa una pratica saldamente legata a una dimensione reale e razionalmente processabile

Questa continua - ma ponderata e mai casuale - metamorfosi, caratterizzante per la poetica di Rajlich, è in qualche modo significativa per l'intera evoluzione dell'arte astratta nel corso del ‘900 e sino all'epoca odierna, in cui l'arte contemporanea sta vivendo un momento di attento recupero delle pratiche multiformi del concettualismo: dall'astrattismo del secondo dopoguerra alle ricerche percettiviste e preconcettuali degli anni ‘60, dall'arte optical alla nuova pittura-pittura analitica degli anni ‘70/’80 in avanti. Dunque, nella volontà dei curatori, che lo stesso Rajlich ha voluto affiancare nella selezione del corpus di opere in mostra, il titolo "MAKE IT NEW!" è un chiaro riferimento all'approccio originale sull'inesauribile carica innovativa della pittura aniconica nel corso del ventesimo secolo a oggi.

In questo senso è stata importante la scelta di a.ffiancare all'artista ceco l'esperienza di maestri italiani che a partire dagli anni ‘50 si sono resi promotori di una meticolosa indagine sull'astrazione pittorica e l'uso minimalista del colore: per citarne alcuni, Getullio Alviani, Rodolfo Aricò, Agostino Bonalumi, Piero Consagra, Dadamaino, Piero Dorazio, Lucio Fontana, Giorgio Griffa, Piero Manzoni, Fausto Melotti, Bruno Munari, Arnaldo Pomodoro, Paolo Scheggi, Turi Simeti, Giuseppe Uncini e molti altri, in gran parte provenienti dalla collezione museale di Villa Croce.

Fra questi, imprescindibile è la lezione di Piero Manzoni: molto più che ai minimalisti americani, è a lui che Rajlich si ispira in modo diretto fin dagli anni ‘70, prendendo spunto dagli Achromes e dalle cromie manzoniane per elaborare le sue iconiche griglie geometriche, o "raster", che divengono l'elemento-chiave per determinare il campo visivo e strutturare la superficie monocroma. Tutto questo, fino a che la potenza gentile del colore e della luce non prenderà il sopravvento sulla struttura, lasciando affiorare le griglie come presenze ormai innocue, in una metamorfosi che racchiude la natura cangiante dell'artista.

 

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