Ci vorrebbe un nuovo Munch

Siamo alla ricerca di un’arte capace di raccontare questo nostro snervante sopravvivere al Covid

Vorrei l’urlo di un nuovo Munch per poter dare il significato esatto di quello che ha rappresentato quest’anno appena trascorso, non solo per raccontare questa società non avvezza alle grandi difficoltà collettive, peggiori per molti versi alle grandi guerre del ‘900 dove la morte si presentava con un volto e una voce ben definita nella sua distruttività; la si descriveva con forza su tele e marmi, e i poeti la sintetizzavano con un immaginifico “si sta come d’autunno - sugli alberi le foglie”. Sintesi che va benissimo per descrivere la situazione odierna portata dal Covid-19. Eppure fra l’urlo di Munch e le foglie di Giuseppe Ungaretti c’è una qualche profonda differenza esistenziale. Nel capolavoro del poeta c’è un’amara presa d’atto: la morte è attorno, la si sente arrivare, quasi pietrificati in una attesa sconcertante, per un certo verso rassegnati, e la si vede far disastri su creature, amici, oggetti della vita quotidiana. La creatura di Munch, quasi universale, fugge via, invece, da qualcosa di invisibile, di inafferrabile, libera nel grido il terrore di una straziante disperazione. Va forse verso una sorta di salvezza, si lascia alle spalle un ‘900 d’orrori quasi ignorato dai giovani ma memorizzato in mille scritti e mille opere d’arte d’ogni genere.

Ci parla con una forza assoluta di un’epoca ricordandocene una presenza senza tempo. Ecco perché oggi ci vorrebbe un nuovo Munch con un nuovo grido terribile ma espresso in modo diverso, contemporaneo vorrei dire, per spiegare a chi verrà domani cosa ha combinato il male oscuro, invisibile, che ci sta torturando psichicamente e fisicamente, un’arte capace di raccontare tutto questo snervante sopravvivere. Questo tempo di parole vuote, di disorganizzazione politica e sanitaria, di perdita del sacro e di rifugio nel profano. Un grido capace di raccontare una morte senza voce e senza volto, una morte che sembra avere come destino quello di troncare definitivamente con il passato. Rinnovarci, spingerci oltre il presente assicurandone una memoria, come l’arte figurativa ha fatto nei secoli. Dov’è quest’arte nuova, c’è già nel pensiero o sta ancora formandosi? I critici, maestri del dopo, non sanno dire, ma non è una novità, quando mai hanno segnato una strada? Per loro Basquiat & company non dovevano assolutamente entrare in una galleria. Né Montale doveva essere mai stampato. Oggi dell’uno e dell’altro, assai tardivi, scrivono visibilia.  

L'Autore

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È un lettore non un bibliofilo. La cosa migliore che ha fatto - dice - è stata dirigere “La Nazione”. Lo rifarebbe. Come inviato speciale ha girato il mondo, con pioggia o sole. Ricorda con feroce rimpianto quando fu dirottato nei cieli dell'America Latina, fu lì lì per essere eliminato, o quando con il collega Sarchielli fu prigioniero dei “ragazzi” di Pol Pot. Li salvarono i vietnamiti, crederci o no, e non dimentica mai una notte di morte con la Fallaci, in Piazza dei Martiri a Beirut, fu quando vide due lune. Ha chiacchierato con gran piacere con Nelson Mandela, Yasser Arafat, Giáp imparando molto. Ha scritto tanti libri - troppi secondo lui. Preferisce ricordare il primo: “La luna di Harar” su Rimbaud in Africa e l'ultimo su Oriana Fallaci: “Cercami dov'è il dolore”. Ha circa ventimila volumi, incerto se bruciarli personalmente o farli bruciare da chi gli succederà. Li ha consultati tutti. Forse anche una sola pagina, quella che gli serviva, ma tutti. E seguita a farlo perché invecchia continuando a imparare come sosteneva Mimnermo: gheràsco d'aèi pollà didascòmenos. Scrive perché non sa fare altro, ma solo se ne ha voglia. Si limita a citare soltanto “La Nuova Antologia” di Spadolini, “La Nazione” e ovviamente “AW ArtMag”. Gli altri, tipo “Il Post”, non contano.

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