L’arte come strumento critico, l’innovazione come linguaggio. È in questo connubio che si inserisce la presenza di Silvio Giordano alla XXI edizione di LuBeC – Lucca Beni Culturali, l’appuntamento promosso da Promo PA Fondazione, guidata dal presidente Gaetano Scognamiglio e dalla direttrice Francesca Velani. In programma l’8 e il 9 ottobre al Real Collegio di Lucca, LuBeC si conferma come laboratorio di riflessione sui rapporti fra cultura, tecnologia e società, con un palinsesto che unisce istituzioni, imprese e creativi per immaginare nuove traiettorie di sviluppo sostenibile.
Ponti di cultura è il tema di questa nuova edizione: connessioni tra generazioni, linguaggi, territori e discipline, in un’epoca segnata da profonde trasformazioni. Fra i protagonisti chiamati a riflettere sul ruolo dell’arte e dell’innovazione digitale la presenza di Silvio Giordano, artista visivo e direttore creativo del Matera Film Festival non sorprende: nato a Potenza nel 1977 , la sua ricerca multimediale – dalla videoarte alla fotografia, dalle installazioni alle performance – ha spesso anticipato i grandi temi della contemporaneità.
La sua carriera è costellata di riconoscimenti e collaborazioni internazionali: vincitore del Premio Celeste per la Videoarte nel 2009 e del Roma Europa Festival premiato da Pio Baldi del MAXXI, Giordano ha esposto al Sungkok Art Museum in Corea, alla Biennale di Videoarte, alla manifestazione internazionale VideoFormes in Francia e a TAF di Atene.
Il suo percorso artistico lo ha portato a collaborare con filosofi e pensatori come Umberto Galimberti, chef stellati come Massimo Bottura e Lorenzo Cogo , registi come Dario Argento, David Cronenberg, Terry Gilliam e Peter Greenaway, oltre a musicisti e performer internazionali. Ha curato identità visive per mostre d’impatto come PLAY alla Reggia di Venaria, collaborato con critici come Francesco Bonami, ed è stato invitato a festival culturali ideati da Elisabetta Sgarbi e a contesti televisivi come Masterchef Italia. Nel 2021 ha ricevuto il Leone d’Argento per la creatività della Biennale di Venezia con il gruppo Accademia del Mediterraneo.
Negli ultimi anni la sua ricerca si è ulteriormente concentrata sul rapporto fra intelligenza artificiale, cultura e società, sviluppando la lectio New Digital Humanism, presentata in atenei e istituzioni come l’Università Federico II di Napoli, la NABA di Milano e l’Università di Ferrara. ( qui uno dei suoi ultimi lavori : https://www.instagram.com/p/DM--3husrVm/)
A Lucca interverrà nel Cantiere ISIE – International Summit of Immersive Experience, insieme a figure come Fabio Viola e Serena Bertolucci, per discutere di AI, realtà immersiva e identità digitale
A LuBeC 2025 il tema è “Ponti di cultura”. In che modo la sua arte costruisce ponti tra linguaggi, discipline e pubblici diversi?
Il mio lavoro è sempre stato quello di costruire ponti tra mondi apparentemente lontani. Uso il linguaggio del mito, della filosofia e del cinema per parlare di intelligenza artificiale, o le tecnologie immersive per riattivare memorie culturali e sociali. La mia ricerca artistica costruisce ponti attraverso le metafore, che considero strumenti universali di connessione. Nel concetto di New Digital Humanism uso due figure mitiche: Frankenstein e Medusa. Frankenstein rappresenta l’uomo che crea la vita artificiale senza prendersene cura: un’allegoria di come oggi costruiamo algoritmi e intelligenze artificiali senza assumere fino in fondo la responsabilità etica verso ciò che generiamo. Medusa, invece, rappresenta la vittima trasformata in mostro: è il simbolo di come spesso “mostrifichiamo” ciò che non comprendiamo, anche nel mondo digitale. Con queste metafore costruisco un ponte tra letteratura, mito e tecnologia, tra passato e futuro, tra immaginari antichi e linguaggi immersivi contemporanei. È in questo dialogo che l’arte diventa un ponte capace di unire discipline e pubblici diversi.
Porta nelle università il concetto di New Digital Humanism. Può spiegarci in poche parole di cosa si tratta e perché è urgente parlarne oggi?
Il New Digital Humanism è un modo per guardare alle tecnologie, e in particolare all’intelligenza artificiale, con uno sguardo critico ma profondamente umano. Come accennato prima uso due metafore per spiegarlo: Frankenstein e Medusa.
Frankenstein, nell’opera di Mary Shelley, non è solo un racconto gotico, ma un’anticipazione dell’era tecnologica. Il dottore crea vita artificiale grazie alla scienza, ma poi abbandona la creatura senza guidarla né educarla: è lì che nasce il “mostro”. Oggi rischiamo di fare lo stesso con le nostre IA: le costruiamo, le mettiamo in circolazione, ma senza una vera responsabilità morale. La lezione di Frankenstein è che non è la creatura a essere mostruosa, ma l’assenza di cura del creatore.
Medusa, invece, ci parla del meccanismo della “mostrificazione”. Nella versione di Ovidio, era una donna bellissima, violentata da Poseidone e poi trasformata in mostro da Atena: non per colpa sua, ma per punizione. Anche qui, la figura mostruosa non nasce da un male intrinseco, ma da un atto di potere e di esclusione. È una metafora attualissima: spesso etichettiamo come “mostro” ciò che non comprendiamo, anche nel digitale, alienando ciò che invece avrebbe bisogno di essere accolto, socializzato, compreso.
Il New Digital Humanism parte da qui: Frankenstein ci insegna la responsabilità del creatore, Medusa ci ricorda il rischio di demonizzare l’altro. Insieme ci dicono che la tecnologia non è il problema: il problema è come la trattiamo, come la immaginiamo e come la inseriamo nel nostro tessuto sociale. Per questo è urgente parlarne oggi: siamo in un momento in cui le intelligenze artificiali non sono più teoria, ma strumenti reali. E senza un umanesimo digitale rischiamo di ripetere gli stessi errori di Frankenstein e di Atena.
Come può l’arte, attraverso l’uso di AI e linguaggi immersivi, aiutare a preservare la dimensione umana nell’era digitale?
L’arte ha il privilegio di usare le stesse tecnologie che spesso ci alienano per restituirci consapevolezza. Nei miei lavori sull’AI, penso a The Silver Mirror ( qui il video : https://www.instagram.com/p/DLZ4SPDsz9r/) o ai progetti sul narcisismo digitale, cerco di mostrare come gli algoritmi non riflettano la realtà ma il nostro desiderio di conferma. Lo specchio oggi è morto, al suo posto c’è l’AI: non dice chi siamo, ma cosa vogliamo sentirci dire. Credo che l’arte abbia una missione precisa: creare pensiero e usare le stesse tecnologie che spesso ci alienano per restituirci consapevolezza. Nei miei lavori sull’intelligenza artificiale, come The Silver Mirror, mi interrogo su come oggi costruiamo la nostra identità attraverso l’immagine e il desiderio di conferma. L’AI diventa uno specchio che non riflette più chi siamo, ma ciò che vogliamo sentirci dire. Nel video vengo baciato da donne simile al mio aspetto. Sono amato da creature del mio desiderio. Cerco conferme artificiali.
In questo senso mi sono confrontato molto con le letture di Erich Fromm, Carl Gustav Jung, Jacques Lacan e Sigmund Freud. Fromm ci parla del rischio di una società centrata sull’avere invece che sull’essere; Jung ci ricorda la potenza degli archetipi, che oggi rinascono in forma digitale; Lacan con lo “stadio dello specchio” ci spiega come l’identità nasca sempre da un riflesso, e oggi questo riflesso è algoritmico; Freud infine ci mostra come i desideri inconsci emergano nelle nostre relazioni, e nei social network li vediamo amplificati e spettacolarizzati.
L’arte, utilizzando AI e linguaggi immersivi, può mettere in scena tutto questo non per assecondarlo ma per renderlo visibile, per mostrarci la fragilità e la costruzione artificiale del nostro narcisismo digitale. È una forma di psicoanalisi collettiva: entri in un’opera immersiva e ti ritrovi dentro il meccanismo stesso che ti illude e ti seduce. In questo modo l’arte non perde la dimensione umana, ma la preserva: perché ci restituisce il dubbio, la domanda critica, la capacità di vedere oltre lo schermo.
In qualità di direttore creativo del Matera Film Festival e artista attivo su più fronti, come vede il futuro delle istituzioni culturali italiane di fronte alla sfida dell’innovazione tecnologica?
Le istituzioni culturali italiane hanno davanti a sé una sfida epocale: non solo adottare le nuove tecnologie, ma comprenderle e usarle per rafforzare la propria identità. Non dobbiamo inseguire l’estetica patinata delle piattaforme, ma costruire narrazioni radicate nella nostra storia e nei nostri territori. Matera è un esempio: una città antichissima che diventa piattaforma sperimentale per il cinema, l’arte digitale e il dialogo interculturale.
Il Matera Film Festival che dirigo come direttore creativo è proprio questo: un luogo dove il passato e il futuro dialogano. Negli anni è stato frequentato da personalità come David Cronenberg, Peter Greenaway, Terry Gilliam, Atom Egoyan, Yoshitaka Amano – tutti artisti e registi che hanno sempre sperimentato nuovi mondi, nuove visioni, nuove forme di linguaggio. La loro presenza dimostra che Matera non è solo uno scenario storico, ma un laboratorio internazionale dove la tradizione incontra l’avanguardia.
Credo che il futuro delle istituzioni culturali dipenderà dalla loro capacità di essere luoghi di mediazione e sperimentazione: custodire il patrimonio, ma al tempo stesso aprirsi al rischio creativo, come fanno i grandi maestri che hanno ispirato e attraversato il nostro festival.
La sua carriera l’ha portata a collaborare con figure di discipline molto diverse, dal cinema alla filosofia, dalla cucina all’arte visiva. Quanto conta oggi il dialogo interdisciplinare per generare nuovi immaginari culturali?
Per me il dialogo interdisciplinare non è un di più, ma il cuore stesso della mia ricerca. Viviamo in un’epoca in cui i linguaggi non possono più essere pensati come compartimenti stagni: filosofia, cinema, neuroscienze, cucina, antropologia, arti visive e nuove tecnologie oggi devono incontrarsi, contaminarsi, trasformarsi a vicenda. Solo così si generano nuovi immaginari capaci di parlare davvero al presente.
Un esempio concreto è il progetto che ho portato al Padiglione Italia di Expo Osaka 2025, ( https://www.instagram.com/p/DOffFWCjOmM/?img_index=1) nella sezione Basilicata: un’installazione dal titolo Motherland, in cui ho trasformato un territorio lucano in un’immagine ibrida. Una figura femminile che unisce natura, tecnologia e mito, incarnando la forza arcaica della terra e al tempo stesso la visione di un futuro possibile. È un’opera che intreccia discipline diverse: la mitologia classica, la fotografia digitale, la filosofia dell’ambiente, fino all’uso dell’AI come linguaggio visivo.
Il dialogo interdisciplinare per me è questo: creare “ponti di cultura” tra mondi lontani, trasformando il locale in universale e il tradizionale in futuribile. Solo così l’arte può risvegliare immaginari nuovi, che non siano nostalgici né ingenui, ma capaci di tenere insieme la complessità della nostra epoca.
Lei ha più volte sottolineato il ruolo critico dell’arte nei confronti della società. In un contesto in cui l’intelligenza artificiale produce immagini e narrazioni autonome, quale pensa debba essere la responsabilità etica dell’artista?
L’artista oggi ha una responsabilità doppia: non solo produrre immagini, ma interrogare le immagini prodotte dalle macchine. Se l’AI è capace di generare infiniti output, l’arte deve porre la domanda giusta: a cosa servono? che impatto hanno? chi li controlla? Che idea voglio veicolare? Ma soprattutto ho delle idee?? È troppo facile lasciarsi sedurre dal fascino estetico di un algoritmo, il compito dell’artista è spostare lo sguardo, rompere l’incanto, svelare le implicazioni etiche. Io credo che l’arte debba diventare un dispositivo critico: un luogo dove l’AI non è celebrata né demonizzata, ma messa in discussione come specchio dei nostri desideri, paure e responsabilità.
Il cinema ci ha spesso abituati a immaginare l’AI come minaccia: da Matrix a Terminator, da Blade Runner a Her, l’immaginario è pieno di scenari catastrofici o distopici. Io ho grande simpatia, invece, per la lettura che ci propone Astroboy, il celebre personaggio creato da Osamu Tezuka nel 1952. Un piccolo androide che, come un nuovo Pinocchio, non sogna di diventare umano, ma rivendica il diritto alla propria autocoscienza. Tezuka lo chiamava Tetsuwan Atomu — “Atom dal pugno d’acciaio” — un androide che sfruttava l’energia nucleare non per distruggere, ma per salvare gli umani, trasformando l’incubo della bomba atomica in una speranza di futuro.
In Astroboy risiede una visione etica: la tecnologia può essere responsabilità, non minaccia. Quando racconto Astroboy, dico ai miei interlocutori che non serve temerlo, ma educarlo — e che possiamo immaginare intelligenze artificiali non come nemiche, ma come alleate. È una narrazione che contrasta la paura con la speranza, la logica del potere con quella della cura
Astroboy ci insegna che non dobbiamo avere paura dell’AI, ma piuttosto imparare a costruire con essa un nuovo patto etico e morale, orientato al bene comune. L’artista ha il compito di stimolare questo immaginario alternativo: non l’AI come mostro, ma come specchio dei nostri desideri, dei nostri limiti e delle nostre responsabilità.

