Fra i maggiori studiosi di arte programmata e dello spazialismo, ha firmato mostre nei più prestigiosi musei italiani e stranieri
Giovanni Granzotto è uno dei critici italiani più conosciuti e, probabilmente, il maggiore studioso dell’arte programmata europea e dello spazialismo, perlomeno relativamente al côté veneziano. Tuttavia, lui preferisce considerarsi un piccolo mecenate di provincia - forse l’ultimo mecenate.
Lo incontro nella sua casa veneziana a Cannaregio, quasi a metà strada fra Madonna dell’Orto e la Misericordia. Ha appena curato, in collaborazione con Stefano Cecchetto e Antonella Alban, due mostre che nascono per integrarsi: “Tancredi Guidi Morandis Licata, quattro anniversari spazialisti”, nella sua Sacile a Palazzo Ragazzoni, e a Crocetta del Montello a Villa Ancilotto. Raccontano, con quasi 160 opere in totale, il percorso di questi maestri volendo, negli anniversari della loro scomparsa, ricordarli avvenuta 60, 40, 30 e 10 anni fa.
Ha curato la grande rassegna di Biasi all'Ara Pacis a Roma, considerata fra le più coinvolgenti degli ultimi 20 anni
Allora, Giovanni, sono più di sette anni che non ti intervisto. Che cosa hai combinato in questo periodo?
Parto dalla fine, da queste due mostre a cui sono molto legato, perché in primis Guidi (a cui devo buona parte della mia formazione artistica attraverso i continui pellegrinaggi nel suo studio veneziano in calle Vallaresso, negli anni ‘70) e poi Tancredi, Morandis e Licata - un amico per la vita - sono alcuni degli artisti che più ho amato, e che, a mio parere, hanno lasciato tracce profonde nella storia dell’arte a Venezia.
A Villa Ancilotto a Crocetta del Montello, nel 2020 e nel 2021 avevo già curato, con il supporto degli amici di Art Dolomites, due rassegne significative sulla “Rivoluzione silenziosa dell’arte in Veneto”, incentrate sui decenni precedenti e successivi alla seconda guerra mondiale, con opere di Gino Rossi, Moggioli, de Pisis, Guidi, Music, Deluigi, Vedova, etc. A Palazzo Ragazzoni, dagli anni ‘70 in poi era passato quasi l’intero mondo dell’arte, con esposizioni molto rilevanti per una città di provincia, ma poi tutto si era un po’ fermato per l’invecchiamento del Palazzo, non più a norma per le nuove esigenze di sicurezza e fruibilità. Dopo uno strepitoso restyling (è diventato un piccolo Pompidou), è stato riaperto proprio con questa mostra.
Negli anni '70, frequenta assiduamente a Venezia lo studio di Guidi, a cui deve molto della sua formazione artistica
Ma prima degli anniversari spazialisti, di cosa ti sei occupato?
Sono andato un po’ in giro per la penisola con Gilbert Hsiao, il maggiore artista optical americano vivente, con Claudio Rotta Loria e con Jorrit Tornquist (uno dei geni della cultura contemporanea), ma anche con i più giovani Marcello De Angelis, Sandi Renko e Domenico D’Oora, e con i miei conterranei Sergio Colussa, Mara Fabbro, Alberto Pasqual, e lo straordinario Tommaso Bet. Tanti musei, come San Salvatore in Lauro a Roma, Palazzo Ducale a Mantova, il MACA di Acri, e poi il Castello del Monferrato a Casale Monferrato.
Da non dimenticare Umberto Mariani che, dopo San Vitale a Ravenna e Palazzo Ducale a Mantova, ho accompagnato all’Ermitage di San Pietroburgo.
All'Ermitage di San Pietroburgo, ha ordinato mostre di Afro, BIASI, Licata, fra gli altri
All’Ermitage hai curato molte esposizioni nei primi dieci anni del 2000.
Ci andavo spesso (adesso non si può più) con Biasi, Licata, Afro, il GRAV, Mariani. San Pietroburgo oltretutto è una città un po’ magica, dove ho lasciato tanti amici e tanti ricordi. E li ho lasciati in tutti i musei d’oltre cortina che, dopo la caduta del muro, si erano aperti con molto entusiasmo alla nostra cultura: Galleria Nazionale di Praga, di Zagabria e di Lubiana, Moma di Mosca, Museo Nazionale di Lubiana, fra gli altri.
Citavi il Castello del Monferrato. Anche per i castelli hai una particolare predisposizione.
Mi mancherebbero quelli della Loira e quelli scozzesi, ma in Italia me ne sono fatti mancare pochi: Castel dell’Ovo a Napoli, Castel Sant’Angelo a Roma, i Castelli svevo-aragonesi di Bari e Trani, il Castello dell’Aquila, ecc. Portare mostre importanti in queste roccaforti, baluardi della nostra storia e della nostra cultura, mi è sempre parsa una testimonianza quasi dovuta dal nostro presente, un segno di gratitudine della contemporaneità.
Ma come sai, più in generale è la contaminazione fra l’antico, la storia soprattutto, e il contemporaneo, che mi ha sempre affascinato: introdurre le avanguardie, lo spazialismo, l’arte programmata nei sacrari dell’arte passata, è stata per me una motivazione irresistibile, una sorta di sfida.
E allora, dopo aver accompagnato gli artisti più amati in alcuni dei luoghi simbolo dell’arte e della cultura nel mondo, come appunto l’Ermitage, ma anche Palazzo Ducale a Venezia, a Urbino e Mantova, e a Mantova Palazzo Te, la Galleria Nazionale dell’Umbria a Perugia, il Mausoleo di Teodorico e San Vitale a Ravenna, Palazzo Reale a Genova, Torino e Napoli, Palazzo dei Normanni e il Loggiato di San Bartolomeo a Palermo, il Museo Civico di Arezzo, il Museo della Cattedrale e il Museo Marittimo a Barcellona, in questi ultimi anni ho voluto riprendere quei viaggi e toccare nuovi approdi.
MORANDIS è FRA GLI ARTISTI CHE Ha PIù AMATO E CHE HANNO LASCIATO TRACCE NELLA STORIA VENEZIANA
E dunque dove sei sbarcato?
Due luoghi fra tutti: la Ca' d'Oro a Venezia, dove abbiamo collocato la terza parte della faraonica antologica dedicata a Virgilio Guidi, mentre le altre due sezioni erano ospitate nelle sale della Bevilacqua La Masa a San Marco e a Palazzetto Tito. Alla Ca’ d'Oro i dipinti di inizio secolo di Guidi dialogavano magicamente con i dipinti antichi della collezione Franchetti.
Alla Bevilacqua La Masa nel 2018, anzi in ben 3 sedi della Bevilacqua, prima della mostra su Guidi, ho curato la più completa rassegna mai organizzata in Italia sullo Spazialismo: una vera meraviglia!
E, poi, dove ancora?
All’Ara Pacis a Roma. Qui, Alberto Biasi ha presentato la sua mostra più bella, più completa e intrigante, in cui i dipinti si alternavano agli ambienti e sembravano essere nati e vissuti all’interno di quel luogo sacro. Un'esposizione considerata fra le più importanti e coinvolgenti negli ultimi 20 anni nella capitale.
Quindi per te le mostre nelle sedi tradizionali sarebbero figlie di un Dio minore?
No, no, per carità. Prima di tutto, c’è la caratura della rassegna che dipende dalla qualità e dal suo compenetrarsi con la sede, antica o moderna che sia. Nel mio cuore, restano sempre ai primissimi posti le esposizioni nei musei dell’America latina, o alla Galleria nazionale di Praga, o alla Gnam di Roma, o la monumentale “Percorsi fra le Biennali" nella Galleria d’Arte Moderna di Pordenone.
A ciò si aggiungono, in questi ultimi anni, quando incominciava a travolgerci il Covid, i due omaggi a Lucio Fontana al Museo archeologico di Aosta e alla Galleria d’arte contemporanea di Monfalcone.
Adesso, che cosa stai progettando?
Vorrei arrivare, e forse ce la facciamo, in alcuni luoghi sacri della storia dove ancora non sono sceso: il MANN di Napoli (o Capodimonte), la Pinacoteca ambrosiana a Milano, e, chissà, anche gli Uffizi. Vorrei portarci Alberto Biasi, Pablo Atchugarry, Getulio Alviani e i miei immancabili compagni di viaggio: Guidi, Afro, Vedova, Tancredi, Morandis, Licata. In più, in coincidenza con la prossima Biennale delle arti visive di Venezia, dovrebbe esserci un evento davvero importante a Ca’ Pesaro.
Se così sarà, mi accompagneranno, in queste avventure, anche i miei inseparabili amici del Gruppo Euromobil: i fratelli Lucchetta.
Stai minacciando da un po’ di tempo di ritirarti nel 2026, a settantacinque anni. Ma sei sicuro: nessun rimpianto e nemmeno qualche sogno ancora da realizzare?
Effettivamente, lo ho promesso alla mia famiglia e anche a me stesso. Speriamo di essere in grado di mantenere. Un rimpianto enorme in realtà c’è: non essere riuscito, con l’esempio o con l’autorevolezza, a comunicare ai maggiori operatori italiani dell’arte la necessità (e aggiungerei anche un po’ l’obbligo morale) di lavorare non solo per loro, ma anche per gli artisti a prescindere. Di smetterla con il mordi e fuggi, e di occuparsi maggiormente di progetti, di promozione, di valorizzazione.
Alla fine farebbero un favore anche a se stessi, oltre che agli artisti e al mercato. Ecco perché mi considero l’ultimo mecenate (senza più risorse) di provincia.
Per i sogni me ne rimane soprattutto uno, anzi due:
Il MoMA di New York, esclusivamente un sogno, e il Padiglione Venezia alla Biennale, che ho sempre immaginato non come una vetrina, per giovani o meno giovani, ma come un tassello di un mosaico in cui finalmente Venezia diventa l’attrice principale, o perlomeno decisiva, della sua Biennale. Il Padiglione come il centro vitale di una “festa mobile” della città.
Me lo avevano promesso più volte (e anche affidato in un'occasione, poi sfumata improvvisamente); probabilmente non farò in tempo a vedere Venezia come la vera Regina della sua Biennale.