Nello scenario postpandemia un temuto ritorno

Vade Retro, curator  

Prepariamoci. Con l’imminente liberi tutti postpandemia, a uscire dalle gabbie ci sarà anche l’orda dei variopinti e ciarlieri curator, per certo resi ancora più logorroici ed esibizionisti da un anno di clausura forzata. Ricordiamo bene ai vernissage i capannelli di questi giovanotti, perlopiù di buona famiglia, assieme a quelli di attempati signori affetti da sindrome acuta di giovanilismo patetico. Tutti con la stessa divisa, neanche fossero stati obbligati come i cinesi all’epoca di Mao – nel caso specifico: pantaloni ben sopra le caviglie e fieramente attillati per la civettuola esposizione delle loro grazie, t-shirt con sopra stampate le più volgari effigi degli artisti più dissacranti del momento. Ci puntavano, si avvicinavano e cominciavano a sparare a raffica le medesime parole altisonanti con cui usavano scrivere per riviste altrettanto cervellotiche e incomprensibili. Tant’è che per legittima difesa avevamo perfino compilato un personale elenco delle espressioni che avrebbero dovuto spingerci a una fuga a gambe levate: non-luogo, distopia, de-contestualizzazione, aporia, cortocircuito sinergico, sperimentalismo creativo, splendida cornice, rigenerazione urbana, spazi alternativi, underground. Un incubo che sta per tornare.

A ogni mostra a cui andremo, 10 curator che troveremo. Non critici, storici, giornalisti d’arte, professioni ormai desuete che hanno perso il loro fascino. Troppo colti e troppo poveri, per interessare l’effervescente e festoso pubblico del jet set artistico. Che è composto, si sa, da persone un po’ capricciose e viziatelle, che si annoiano in fretta, che vanno a una inaugurazione solo se sicure che sarà un evento, meglio se megaevento. Questo del curator, in realtà, non è fenomeno recente. La sua figura è iniziata ad apparire fin dagli anni ‘90. Una tendenza, sembrava allora, prettamente americana, modaiola ed effimera. Invece, pian piano, nel giro di un trentennio ha preso il sopravvento. Ora, la maggior parte dei trenta/cinquantenni che si occupano d’arte, firmano un catalogo o un articolo di giornale, organizzano una rassegna, non importa se in prestigiose sedi museali o nel garage sotto casa, tutti baldanzosamente si autodefiniscono curator.  

Il curator non ambisce a essere un critico, tantomeno uno storico. Spesso, ha della storia dell'arte poche, vaghe, lacunose conoscenze

Il personaggio in questione non ambisce a essere un critico, tantomeno uno storico. Spesso, anzi, ha della storia dell’arte poche, vaghe, lacunose conoscenze. È uno che se ci si azzarda a farlo parlare di Raffaello o Fidia, con sorriso soave risponde dirottando la conversazione sul calcio o sui migliori ristoranti di sushi, con una competenza che sgomenta. Però si sforza anche di sapere tutto sugli artisti in voga. È munito di un suo personale who’s who dell’arte contemporanea che rivede quotidianamente, e che gli funge come test di autostima. I social lo aiutano: più si eleva il numero di potenti a cui riesce a strappare un mi piace, più si piace. Non è uno che perde tempo a girare per gli atelier in cerca di talenti: fra un artista famoso e uno di valore, non ha dubbi e sceglie il primo. È talmente abile nelle pubbliche relazioni (con ogni evidenza la principale capacità) che riesce a volte perfino a farsi convocare per la direzione di istituzioni un tempo gloriose, spingendo il vecchio, saggio, autorevole critico sulla malinconica via del tramonto.

Del resto, per quello che fa il curator (organizzare e strombazzare Kermesse con l’annesso ambaradan di artisti che si vestono, si muovono e cinguettano da star) la cultura proprio non serve. Gli basta l’aggiornamento. Pochi libri in testa, si nutre di rotocalchi, di pettegolezzi da salotto, dove eccelle quanto a giudizi sprezzanti su tutti i suoi simili, ad eccezione di quelli che gli sono, o potrebbero tornargli, utili. Ha una visione manichea dell’artista che divide in due categorie: “in”, quanto più Kitsch, fetish, horror glam, anticattolico, provocatorio; “out” se sa fare bene il suo mestiere, se si avvale ancora di tela e pennello, se fa trasparire dall’immagine una emozione o, quel che è peggio per il curator, addirittura un pensiero. C’è da capirlo, il massimo della sua riflessione critica non va oltre lo slogan. 

L'Autore

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Nella sua geografia dell’anima ha Venezia, la città natale, nel cuore e la Versilia eletta a buen retiro. Quando nell’adolescenza le chiedevano che cosa avrebbe desiderato fare da grande, rispondeva sicura: viaggiare e scrivere. Così, per raggiungere lo scopo, si è messa a studiare lingue prima, lettere poi.  E sono oltre 30 anni che pubblica romanzi, saggi, scrive articoli, gira per il mondo. Ci sono tre cose - dice - di cui non può fare a meno: il mare, la scrittura, il caffè. Ah: è il direttore responsabile di AW ArtMag.

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