Parigi: il Pompidou acquisisce quattro opere di Riccardo Guarneri

16 Febbraio 2021

E i successi continuano

È da ormai diversi anni che il collezionismo nazionale si sta concentrando sul lavoro di un artista che nel 2017 è stato invitato per la seconda volta (la prima risale al 1966) alla Biennale di Venezia a rappresentare l’Italia insieme a Giorgio Griffa. Un artista che sebbene abbia goduto dell’amicizia dei più grandi pittori italiani dell’ultimo secolo ha faticato a incontrare il gusto degli amatori. Il caso Riccardo Guarneri, tra chi è del settore, è sempre stato all’apice di quella classifica non scritta degli artisti viventi italiani meno compresi dal mercato; eppure, c’erano tutte le carte in regola per auspicare un successo senza riserve.

Chi additava la mancanza di interesse da parte delle istituzioni, chi lo scarso impatto visivo delle sue opere e chi l’assenza di qualche lavoro in sedi espositive di rilievo.

Nel giro di pochi anni, Guarneri è stato nuovamente invitato alla Biennale di Venezia, le sue opere sono state riscoperte per il loro romantico lirismo cromatico e quest’anno ben quattro lavori entreranno a far parte della collezione permanente del Centre Pompidou di Parigi. Strike. I tanti collezionisti che hanno creduto nel pittore fiorentino saranno di certo soddisfatti di questi risultati e stimolati a continuare a collezionarlo.

Recentemente ho potuto conoscere Riccardo Guarneri direttamente nel suo studio, con l’occasione di una ripresa televisiva. Appena ho varcato l’ingresso mi è sembrato di entrare in un tempio, rischiarato dalle tinte fredde e dalle luci brillanti delle tele e delle carte. Un luogo silenzioso, meditativo ed estremamente rilassante per lo sguardo.

Guarneri ama definire le sue opere “a lento consumo” perché oppone al gusto pirotecnico di molti artisti contemporanei uno stile sobrio, composto e dall’eleganza sopraffina. Picasso diceva che per ammirare un’opera d’arte erano sufficienti due cose: del tempo e una sedia. È proprio così che bisogna trascorrere lo studio visit, in contemplazione perché solo una lunga osservazione può far emergere tutte le leggere sfumature di colore e le ombreggiature di lapis che screziano le superfici.

Guarneri mi mette subito a mio agio iniziando a spostare le tele per appenderle al muro e al cavalletto e inizia a raccontare la genesi di ognuna. Se è vero che il livello di un uomo lo si valuta anche dagli uomini di cui si circonda, credo che un artista vada misurato anche sulla base dei suoi incontri e delle sue amicizie. Tra i tanti aneddoti di quel giorno ve ne riporto solamente un paio.

Nel 1963 era a Milano per una mostra con Paolo Masi alla galleria Il Cenobio quando, dopo qualche giorno dall’inaugurazione, il gallerista chiamò Guarneri per dirgli che era passato Lucio Fontana il quale aveva espresso i suoi apprezzamenti per le opere del pittore fiorentino e desiderava riceverlo nel suo studio per conoscerlo. Guarneri si recò nello studio di Fontana che gli comunicò la sua agitazione poiché in quei giorni aveva alcune opere in mostra alla galleria Marlborough di Londra (che Fontana chiamava Marlboruff storpiando il nome). Questa galleria stava alzando rapidamente le quotazioni dell’artista di Rosario vendendo le opere di 40 punti a ben 800 mila lire, una cifra altissima secondo lo stesso esecutore.

Successivamente, Guarneri venne invitato a visitare le opere dello studio. C’erano diverse tele ovali tagliate e bucate di color azzurro su un lato e rosa sull’altro lato e Fontana spiegò che le stava realizzando per la Galleria l’Ariete di Beatrice Monti alla quale servivano per Pasqua in quanto ricordavano delle gigantesche uova pasquali. Guarneri rimase perplesso nel vedere alcune tele bucate, altre no, con dei colori a olio lucidi che sembravano proprio richiamare la carta colorata che avvolgeva le uova. Era abituato alle tele bianche con singoli tagli netti e rigorosi. Fontana, comprendendo lo spaesamento del giovane pittore, esclamò in milanese “a me piace bucarli”, esprimendo senza tanti orpelli la sua preferenza per i buchi, successivamente chiamati “Fine di Dio”.

Un secondo aneddoto, di pochi anni successivo, risale al 1966 in occasione della Biennale di Venezia a cui venne invitato ad esporre anche Guarneri. Per renderci conto del calibro di quella biennale è sufficiente citare alcuni degli artisti invitati come Fontana, Burri, Lichtenstein, Bonalumi, Castellani, Ceroli, Frankenthaler, Morandi, Licini, Munari, Pistoletto, Raysse, Melotti, Sanfilippo, Turcato, Scheggi, Scanavino, Uncini e Viani. Guarneri stava allestendo la sua sala quando, vedendo un uomo che indossava una tuta da operario, gli chiese una mano per appendere le opere. Senza tanti convenevoli, quest’uomo aiutò il pittore fiorentino. I giorni successivi vennero conferiti i premi e in mezzo alla folla, l’operaio, vestito di tutto punto, firmava autografi. Ebbene, quell’uomo era Julio Le Parc e in quell’edizione vinse il Premio Internazionale, il massimo riconoscimento.

Sono soltanto due esempi di incontri incredibili che potrebbero fornire la sceneggiatura per un film. Non ci dicono nulla della pittura di Guarneri, certo, per quella sono già stati spesi fiumi di inchiostro da parte dei migliori critici; quindi, non tento nemmeno di aggiungere altre parole perché sarebbero ridondanti e ripetitive. Mi auguro soltanto che prosegua l’ascesa di un maestro che meritava già decenni fa il successo che ora gli viene indiscutibilmente riconosciuto.

L'Autore

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Cesare Orler crede profondamente nell’equivalenza arte=vita e vorrebbe “fare della propria vita come di un’opera d’arte” per dirla alla D’Annunzio. Si è laureato in Conservazione e Gestione dei Beni e delle Attività Culturali a Venezia e sta completando la specializzazione in Storia dell’Arte Contemporanea. Gestisce lo spazio televisivo “Cesare’s Corner” dedicato alla divulgazione dell’arte contemporanea su OrlerTV, segue da vicino artisti italiani emergenti di cui cura mostre e testi critici ed è accanito sostenitore di AW ArtMag. Oltre all’arte gli piace anche il cinema e bere birra, di cui è raffinato intenditore, ma forse di tutto questo sa fare bene solo l’ultima.

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