Ma è iniziata l'arte del dopovirus? Durante una visita da Giuliano Gori, lo stimolo per una grande intuizione

È già iniziata l’arte del dopovirus? Direi che semmai si è svulippata un’arte che già si affacciava all’orizzonte: quella della nostalgia. Arte di rilettura del nostro passato, ricerca di una infanzia dalla quale la pandemia ci ha colpito traumaticamente, in più di un caso, sottraendoci parenti stretti che hanno assistito la nostra crescita. Che ci hanno consegnato una cultura ancora solida che oggi non esiste più: oggi non si va oltre il Bignami. E per molti è già tanto. Utile a volte a far pensare a chi di noi aveva digerito testi di duecento pagine, che tutto sommato alla luce d’oggi è stata una cosa positiva: l’ultima possibilità di una scuola che ormai è da anni in stato comatoso.

Tempo fa alle celebrazioni del 20 settembre ho chiesto a un giovane quale importante composizione poetica era stata scritta durante la battaglia per liberare Roma. E lui pronto, pimpante: “Bella ciao”. Complimenti a padre, madre e professore che di inno di Mameli forse non hanno mai sentito. Inutile indagare di chi sia la colpa, ma è certo della politica povera di idee, provinciale e televisiva del nostro paese. Un vecchio e colto amico con l’ironia dei fiorentini, mi ha mandato un’email: “Umberto sta nascendo la nuova poesia, quella del dopo catastrofe, leggi e sappimi dire”. La poesia aveva un attacco folgorante: “Ange plein de gaieté connaissez-vous l’angoisse?”… Magnifico per definire i giorni di lockdown e di morte. Peccato che l’avesse scritta, tempo fa, Charles Baudelaire. L’amico proseguiva coi suoi versi: “noi l’abbiamo incontrata - sulla strada di casa - addobbata con le vesti di un virus”. Mi voleva dire che dovevamo recuperare il passato. Lui, pittore, stava tentando. Ma poi nascondeva tutti i suoi lavori in cantina.

Giorni fa sono andato nella fabbrica di Giuliano Gori, uno dei più grandi collezionisti mondiali, noto in tutti i grandi musei del globo, nella sua villa, millenni fa avevo incontrato un giovane Cristo. In fabbrica c’era la vernice di un giovane fiorentino, Flavio Favelli, che vive a Savigno. Intitolata Profondo oro. Quattro i pezzi esposti: due quadri dai riflessi dorati giocati sulla superfice con leggeri graffiti, e due monumenti composti dall’assemblaggio di vecchi mobili di casa. Sulla loro superfice leggevi la camera dei tuoi nonni; il soggiorno, l’ingresso con le buone cose di pessimo gusto, il mobile bar; l’atmosfera quieta delle sere a chiacchiera, il profumo dei fiori appassiti. Un’infanzia recuperata, una nostalgia riscoperta. I nostri morti ritrovati, un’amarezza profonda per le cose perdute. E i due quadri erano due fondi oro del ‘300, ma solo fondi nessuna immagine. Un diario delle tue illusioni. Forse Favelli ha davvero anticipato l’arte del dopo coronavirus. Una grande intuizione questa, di Fabio e Paolo Gori, figli di Giuliano. Sempre sul filo della contemporaneità. Come questa nuova pubblicazione.

L'Autore

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È un lettore non un bibliofilo. La cosa migliore che ha fatto - dice - è stata dirigere “La Nazione”. Lo rifarebbe. Come inviato speciale ha girato il mondo, con pioggia o sole. Ricorda con feroce rimpianto quando fu dirottato nei cieli dell'America Latina, fu lì lì per essere eliminato, o quando con il collega Sarchielli fu prigioniero dei “ragazzi” di Pol Pot. Li salvarono i vietnamiti, crederci o no, e non dimentica mai una notte di morte con la Fallaci, in Piazza dei Martiri a Beirut, fu quando vide due lune. Ha chiacchierato con gran piacere con Nelson Mandela, Yasser Arafat, Giáp imparando molto. Ha scritto tanti libri - troppi secondo lui. Preferisce ricordare il primo: “La luna di Harar” su Rimbaud in Africa e l'ultimo su Oriana Fallaci: “Cercami dov'è il dolore”. Ha circa ventimila volumi, incerto se bruciarli personalmente o farli bruciare da chi gli succederà. Li ha consultati tutti. Forse anche una sola pagina, quella che gli serviva, ma tutti. E seguita a farlo perché invecchia continuando a imparare come sosteneva Mimnermo: gheràsco d'aèi pollà didascòmenos. Scrive perché non sa fare altro, ma solo se ne ha voglia. Si limita a citare soltanto “La Nuova Antologia” di Spadolini, “La Nazione” e ovviamente “AW ArtMag”. Gli altri, tipo “Il Post”, non contano.

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