Bella senz'anima

Ai-Da: l’ultima invenzione dei professori di Oxford

È una ragazza robot assai colta, capace perfino di rifare fedelmente il Tondo Doni

Se dico che la nuova arte, quella che caratterizzerà in parte il dopovirus, è già cominciata e la si può “godere” in una ampia esposizione al Design Museum di Londra, molti mi tacceranno di essere un provocatore che per un nonnulla vede invadere il ruolo dell’artista da quello del robot, che in realtà non inventa nulla, ma che per il momento, per forza di cose e di progettazione, deve ripartire dall’uomo: ritratti, figure, paesaggi e soprattutto colori rispecchiano la cultura di chi ha creato l’artista nuovo, una ragazza spigliata con una parrucca dal taglio francese e una corporeità asciutta, lontana dalla dieta mediterranea, solo le braccia sono in metallo, visibili, articolate sul sistema di una minuscola gru.

L’artista si chiama Ai-Da, è una invenzione di cinque professori di Oxford, lombi illustrissimi, dunque, tenendo conto che una parte del suo dna proviene da una madre altrettanto nobile dal punto di vista culturale, la ricercatrice ottocentesca Ada Lovelace, che per prima si è occupata di algoritmi – materia difficilissima – contribuendo a formare una creatura in grado di avere una intelligenza artificiale che le permette di pensare, di avere reazioni e cultura umana, in base a ciò che i suoi “genitori” le hanno inculcato nel suo misterioso io sempre grazie a un numero di algoritmi che la rendono pressoché umana con un bagaglio notevole di conoscenze.

Chi questo agosto andrà a visitare la mostra di questa prima Gentileschi del nostro tempo, si renderà conto che Ai-Da non innova nulla, prende da quello che impara e, per adesso, non è in grado di lanciare una corrente “Aidese”, ma le sue opere sono niente male: appena adombrate da un certo smarrimento, di una sorta di ricerca sia nel colore che nella composizione.

Un voler andare oltre. Ma che forse quell’algoritmo ancora le manca. Non basta: manca l’anima nei suoi ritratti con un vuoto assoluto nei loro occhi in genere marroni. Ho avuto la ventura di guardare il suo autoritratto, poco dopo aver osservato un lavoro di Xavier Bueno, Bambina con bambola: il volto della bambina vedeva, aveva un pensiero, la bambola no, era cieca e muta. L’una era capace di esprimere concetti, sensazioni, l’altra no. Ma anche questo gap, prestissimo sarà superato, è solo questione di algoritmi.

Spero che non facciano di lei dei fabbricatori di monumenti di materiali diversi e di diversa oscurità espressiva, che per decenni i nostri artisti hanno elaborato e venduto ai vari sindaci italiani, magari a corto di mezzi, ma sempre in grado di trovarli per acquistare due pietre grezze, poste l’una sull’altra con un nome profondamente intellettuale, o un mucchietto di longarine saldate assieme a formare una sorta di gelido fiore.

Sarebbe opportuno che gli artisti facessero gli artisti: i Moore e i Pomodoro hanno già dato, e anche loro – pur maestri – passano ormai inosservati nelle piazze del mondo, sfrattati spesso da cinesi, dei quali stanno comparendo esempi di land art che forse starebbero meglio a Wuhan. Uniquique suum: a noi il Cornavirus, a loro le montagne di escrementi. Noi perlomeno li avevamo messi in scatola e ancora stiamo a pensare, ogni tanto, al vero significato dell’opera della ormai quasi dimenticata Merda in scatola di Manzoni.

Insomma, è ancora presto per leggere il futuro ma le avvisaglie sono Ai-Da, e il Tondo Doni riprodotto esattamente da un robot e acquistato subito da un collezionista. Che sia l’anno delle macchine che non hanno subito traumi da Covid-19?

L'Autore

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È un lettore non un bibliofilo. La cosa migliore che ha fatto - dice - è stata dirigere “La Nazione”. Lo rifarebbe. Come inviato speciale ha girato il mondo, con pioggia o sole. Ricorda con feroce rimpianto quando fu dirottato nei cieli dell'America Latina, fu lì lì per essere eliminato, o quando con il collega Sarchielli fu prigioniero dei “ragazzi” di Pol Pot. Li salvarono i vietnamiti, crederci o no, e non dimentica mai una notte di morte con la Fallaci, in Piazza dei Martiri a Beirut, fu quando vide due lune. Ha chiacchierato con gran piacere con Nelson Mandela, Yasser Arafat, Giáp imparando molto. Ha scritto tanti libri - troppi secondo lui. Preferisce ricordare il primo: “La luna di Harar” su Rimbaud in Africa e l'ultimo su Oriana Fallaci: “Cercami dov'è il dolore”. Ha circa ventimila volumi, incerto se bruciarli personalmente o farli bruciare da chi gli succederà. Li ha consultati tutti. Forse anche una sola pagina, quella che gli serviva, ma tutti. E seguita a farlo perché invecchia continuando a imparare come sosteneva Mimnermo: gheràsco d'aèi pollà didascòmenos. Scrive perché non sa fare altro, ma solo se ne ha voglia. Si limita a citare soltanto “La Nuova Antologia” di Spadolini, “La Nazione” e ovviamente “AW ArtMag”. Gli altri, tipo “Il Post”, non contano.

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