Umberto Cecchi

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È un lettore non un bibliofilo. La cosa migliore che ha fatto - dice - è stata dirigere “La Nazione”. Lo rifarebbe. Come inviato speciale ha girato il mondo, con pioggia o sole. Ricorda con feroce rimpianto quando fu dirottato nei cieli dell'America Latina, fu lì lì per essere eliminato, o quando con il collega Sarchielli fu prigioniero dei “ragazzi” di Pol Pot. Li salvarono i vietnamiti, crederci o no, e non dimentica mai una notte di morte con la Fallaci, in Piazza dei Martiri a Beirut, fu quando vide due lune. Ha chiacchierato con gran piacere con Nelson Mandela, Yasser Arafat, Giáp imparando molto. Ha scritto tanti libri - troppi secondo lui. Preferisce ricordare il primo: “La luna di Harar” su Rimbaud in Africa e l'ultimo su Oriana Fallaci: “Cercami dov'è il dolore”. Ha circa ventimila volumi, incerto se bruciarli personalmente o farli bruciare da chi gli succederà. Li ha consultati tutti. Forse anche una sola pagina, quella che gli serviva, ma tutti. E seguita a farlo perché invecchia continuando a imparare come sosteneva Mimnermo: gheràsco d'aèi pollà didascòmenos. Scrive perché non sa fare altro, ma solo se ne ha voglia. Si limita a citare soltanto “La Nuova Antologia” di Spadolini, “La Nazione” e ovviamente “AW ArtMag”. Gli altri, tipo “Il Post”, non contano.

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